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Che Donald Trump fosse un candidato fuori dagli schemi lo ha anche confermato nel corso del suo primo intervento appena eletto, quando ha fatto esplicito riferimento ai servizi segreti.

Non si era finora mai visto un presidente degli Stati Uniti che, addirittura a caldo, subito dopo un trionfo imprevisto  si riferisse agli uomini dei servizi definendoli “persone acute, intelligenti, incredibili”, proseguendo “con loro non mi sentirei mai in pericolo” e concludendo “voglio ringraziare di cuore i servizi segreti”.

Com’è consuetudine negli States, entrambi i candidati alla presidenza durante la campagna elettorale hanno come interlocutori gli uomini e le strutture dell’intelligence. E proprio in un’intervista di queste ultime settimane il direttore della National Intelligence James Clapper, ha evidenziato qual è il rapporto con i responsabili politici: “Se non credono nel nostro lavoro, è affar loro: noi riferiamo”.

E proprio nel suo primo discorso Trump ha, invece, ribadito la sua fiducia in questa istituzione dello Stato. E poiché i Servizi dovunque sono considerati degli ambiti inevitabilmente opachi se non oscuri, si potrebbe considerare come una specie di sdoganamento, di riconoscimento mondiale dell’intelligence, considerato in modo evidente come uno strumento fondamentale per la democrazia.

Questo attestato di credibilità dei Servizi è la dichiarazione per nulla evidenziata, ma secondo me, quella più significativa emersa dal primo messaggio di Trump, reso possibile dal clamoroso risultato elettorale che ha dimostrato che la realtà stavolta ha prevalso sullo storytelling, cioè sulla sua narrazione. Attraverso il riconoscimento di Trump, l’intelligence viene tirata fuori dal cono d’ombra per assumere una funzione centrale. Non a caso il tema della sicurezza, è stato chiaramente affrontato dal presidente appena eletto quando ha parlato in modo accorato dei veterani e quando ha dichiarato: “Andremo d’accordo con tutti i Paesi che vogliono andare d’accordo con noi”.

Il passaggio di Trump sull’intelligence potrebbe costituire un’ulteriore sconfitta del “politicamente corretto” che ha interpretato sistematicamente i Servizi come il “luogo dell’inconfessabile”.

Trump pone, invece, in primo piano la “Ragion di Stato” che prevede prima di tutto la sicurezza e il benessere reali dei cittadini, in opposizione a valori irrinunciabili ma a volte astratti e retorici.

Di fronte a un sistema mediatico che, sulla base di sondaggi, esperti e statistiche, narra una visione distorta dei fenomeni, l’intelligence può costituire lo strumento fondamentale per comprendere la realtà, poiché dal diluvio e dal delirio informativo occorre estrarre solo le notizie rilevanti. E questo consente di porre al centro le informazioni davvero utili. Non a caso l’importanza di questo processo lo descrive meglio di nessun altro proprio Bill Gates, un uomo che ha contribuito a rivoluzionare il mondo: “Ho una certezza semplice ma incrollabile: bisogna eccellere sul piano dell’informazione. Il successo o il fallimento di un’impresa dipendono al modo in cui si raccolgono, gestiscono e utilizzano le informazioni”. Donald Trump, contro ogni previsione, ha sconfitto l’establishment più potente del pianeta. È successo come con il crollo del muro di Berlino: imprevisto ma non imprevedibile, perché i segnali c’erano tutti solo che non abbiamo voluto vederli. Con tutti i suoi limiti, l’intelligence, con la sua caratura preventiva, può aiutarci a non rimanere attoniti e impreparati davanti agli inevitabili cambiamenti. L’intelligence, in definitiva, può essere una risorsa indispensabile per ricostruire la democrazia e per essere davvero contemporanei. E questo la vittoria di Trump lo mette in evidenza.

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